Firmare il consenso informato sotto ricatto

 

A seguito dell'avvento del virus del pipistrello, già da noi ribattezzato PiPiVirus, i dipendenti dello Stato si trovano in una situazione a dir poco paradossale.

 

Medici, infermieri, insegnanti - solo per citare i mestieri più controversi negli odierni dibattiti pilotati dai Media - sono stati sottoposti al ricatto del datore di lavoro (lo Stato) che ha deciso che questi ultimi possano continuare a lavorare, solo se vaccinati con doppia dose di siero autorizzato dall'AIFA.

 

 

Ipotizziamo a questo punto che uno di questi lavoratori non sia d'accordo sul farsi inoculare un vaccino ancora in fase di sperimentazione. Qualora non accettasse ciò che gli impone il datore di lavoro, il nostro impiegato dello Stato rischierebbe addirittura il posto di lavoro, quindi lo stipendio, il sostentamento ed infine il riconoscimento della pensione.

Pare abbastanza naturale che un tale ricatto porti all'accettazione coatta della vaccinazione, che però non significa che il lavoratore abbia effettivamente elaborato in cuor suo il consenso. Si arriverà quindi alla vaccinazione obbligatoria, senza che il datore di lavoro si assuma la responsabilità di ciò che ha imposto col ricatto al proprio dipendente.

Quest'obbligo in molti casi vale anche per i lavoratori del privato, settore nel quale i sindacati si mostrano in realtà molto più agguerriti di quanto non accada nel pubblico impiego, perlomeno con lo scopo di tenere sotto controllo i licenziamenti capestro, condizionati dal regime sanitario pubblico.

 

 

Ora immaginiamo un insegnante di filosofia della scuola secondaria superiore che si trovi di fronte a questa scelta obbligata, pena la perdita del posto di lavoro e tutto ciò che ne consegue. Immaginiamo quindi di essere di fronte ad un fine intellettuale che abbia a cuore la propria onestà intellettuale appunto e che non ami dichiarare il falso in un atto che come vedremo diventerà pubblico.

Il datore di lavoro è infatti lo Stato che impone le sue leggi al lavoratore come a tutti gli altri cittadini, quindi il nostro lavoratore sa di essere obbligato al rispetto della legge nel suo più ampio significato generale.

Immaginiamo quindi che il nostro insegnante, pur non sentendosi a proprio agio rispetto all'imposizione del datore di lavoro, posto di fronte al ricatto del prendere o lasciare, decida di recarsi al più vicino centro di somministrazione del vaccino di Stato per farselo inoculare così come gli viene imposto.

L'operatore che lo accoglie ovviamente gli presenta il documento sul quale il nostro insegnante dovrà apporre obbligatoriamente la propria firma, pena l'impossibilità di ricevere la somministrazione del vaccino anti Covid-19:

Ora il nostro filosofo si trova di fronte ad un grande dilemma: firmare il consenso informato che contiene una serie di clausole che lui non intederebbe sottoscrivere secondo coscienza, o non firmarlo in coerenza col suo pensiero?

A questo punto l'operatore sanitario, vedendolo indeciso, lo informa che lui non è tenuto a firmare qualora non fosse convinto e che questo mancato consenso però lo costringerebbe ad andar via senza aver ricevuto la vaccinazione prevista che lo porterebbe al rischiare di perdere il posto di lavoro pubblico.

 

Che fare?

 

Meglio firmare e quindi violare la norma che punisce il falso ideologico (articolo 476 e seguenti del Codice penale), o non firmare in coerenza con la sua valutazione intellettuale e perdere il lavoro, lo stipendio, il sostentamento e la pensione?

Il nostro insegnate sa molto bene che apponendo la firma, visto il suo ruolo di dipendente dello Stato posto di fronte ad un pubblico ufficile che gli inoculerà il vaccino, compierebbe un atto determinante ai fine del mantenimento del proprio posto di lavoro e questa fattispecie non potrebbe che rappresentare in qualche modo un falso in atto pubblico, non foss'altro per via di quanto lui pensa realmente, anche perché dato il suo ruolo e quello dell'addetto alle vaccinazioni che gli sta di fronte, apporre o meno la propria firma condizionerebbe un eventuale mantenimento del posto di lavoro pubblico.

A questo punto diventa evidente che un datore di lavoro serio, che imponga una tale fattispecie di ricatto, dovrebbe trarne la dovuta coseguenza: sta al datore di lavoro pubblico che impone la vaccinazione, in ogni e qualunque caso di dubbio, apporre la propria firma, essendo stato di fatto proprio lui a porre il lavoratore di fronte al dilemma, ovvero al rischio reale di perdere il proprio posto di lavoro.

Nessuno mai potrà pretendere che una persona apponga una firma su qualcosa che non intederebbe mai sottoscrivere se non si trovasse di fronte alla minaccia di un ricatto.

Ma come sappiamo, le cose non stanno così e ciò dimostra che esiste un vulnus che si nasconde dietro il ricatto della perdita del posto di lavoro in mancanza di condivisione circa la scelta del datore di lavoro di iniettare sul lavoratore una sostanza che quest'ultimo non accetterebbe in assenza del rischio di perdere il posto di lavoro.

 

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